Resococonto della diretta facebook alla pagina https://www.facebook.com/groups/2559430654128300 dell’associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, si terrà giovedì 26 Novembre, alle ore 17.00 l’incontro che avrà per tema “L’infausto Trattato di Pace del 10 Febbraio 1947 e il referendum mancato” relatore Claudio Giraldi.
di Claudio Giraldi «È stato detto, non senza ragione, che l’Italia è sempre bravissima nel fare gli interessi degli altri, ma nella circostanza del trattato di pace diede il meglio di se stessa. Ed è proprio ripercorrendo la storia di quasi due anni di trattative, che scopriremo come una serie infinita di errori, di sottovalutazioni della nuova realtà geopolitica che si era creata, di mancanza di coordinamento tra alleati, di volontà punitiva di alcuni di loro nei nostri confronti, portò alla definizione di un trattato di pace punitivo e umiliante per l’Italia.
Ma fu soprattutto l’autoconvincimento che l’Italia, che tornava in campo a fianco degli Alleati, fosse quella di Vittorio Veneto, del Risorgimento, di Mazzini e di Garibaldi, e questo ci fornisse una nuova verginità.
Ci intossicammo con questa pietosa bugia, credemmo di avere diritto a esser considerati vincitori e invece scoprimmo una realtà amara eravamo sconfitti e vinti. In anni recenti, con la pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani, sono emersi inediti retroscena della fase preparatoria che portò ai Trattati di Parigi, rivelatori del clima sfavorevole in cui l’Italia si trovò ad agire, con De Gasperi inizialmente battagliero e via via sempre più consapevole di quanto l’Italia fosse diventata una mera pedina di scambio nella più ampia partita tra Usa e Urss e i loro reciproci interessi. Si partì da un: “manteniamo i confini decisi dal trattato di Rapallo del 1920”, per arrivare a: “siamo riusciti a conservare Trieste Gorizia e il basso Friuli”.
Già il 10 Giugno 1944 con un appunto segreto della Segreteria Generale del Ministero degli Esteri italiano(MAE) si raccomandava al maresciallo Badoglio di “prospettare la necessità, al momento del crollo della Germania, dell’immediato invio di unità navali italiane nei porti di Trieste, di Fiume e di Zara e di forze armate italiane nei principali centri della Venezia Giulia accanto alle unità ed alle forze anglo-americane nonché la necessità di una diretta amministrazione angloamericana nella zona della frontiera orientale”, ci illudevamo di poter dettare regole e condizioni. Nel frattempo però con l’evolversi della situazione militare mutavano anche le linee di condotta americana e britannica. Gli inglesi, in un primo momento, aspiravano a mantenere buone relazioni con gli jugoslavi da essi stessi aiutati, con massicci invii di armi e munizioni, riconoscendo di fatto in Tito, il legittimo rappresentante della nuova Jugoslavia. Ma, dopo l’incontro tra lo stesso Tito e Churchill dell’agosto del 44, e nonostante l’accordo di Mosca dell’ottobre dello stesso anno che stabiliva un’influenza fifty-fifty anglosassone e sovietica nei Balcani, Churchill si rese conto che Belgrado gravitava sempre più verso Mosca e chiese ripetutamente che venisse organizzato uno sbarco non soltanto nel Sud della Francia ma anche nei Balcani.
D’altro canto gli americani, che al contrario dei britannici non avevano interessi diretti nel Mediterraneo, non erano disposti a farsi coinvolgere in un conflitto con gli jugoslavi a causa di quelle che erano considerate “complicazioni balcaniche”.
Fu proprio l’indecisione angloamericana che permise a Tito di vincere la corsa per Trieste giungendo nel capoluogo giuliano il 1° maggio del 45 prima delle truppe alleate e prima ancora di aver liberato Lubiana e Zagabria.
L’ambasciatore italiano a Washington, Tarchiani, durante un colloquio con Lord Halifax, ambasciatore inglese a Washington, oltre a farsi confermare che l’autorità del Governo militare alleato si sarebbe estesa ai territori liberati fino alla frontiera del 1939, fece presente “lo stato di scoramento dell’Italia per causa della politica timida, incerta, negativa degli alleati”.
A nulla valsero queste proteste tant’è che Tito il 1° maggio 45 mise in pratica il detto di Stalin secondo il quale l’occupazione di fatto rappresenta per tre quarti l’occupazione di diritto e il IX Korpus sloveno entrò a Trieste prima delle truppe alleate neo-zelandesi.
Il 4 Maggio il generale Jaksic, capo di Stato Maggiore della IV armata jugoslava, chiese formalmente agli Alleati di ritirarsi da levante dell’Isonzo mettendoli in guardia che, se si fossero ingeriti negli affari della zona jugoslava, egli non si assumeva nessuna responsabilità per qualsiasi cosa che sarebbe potuta accadere. Il 5 Maggio ad Aidussina, l’Assemblea per la costituzione del Consiglio sloveno proclamò l’annessione del Litorale Adriatico alla Jugoslavia e per l’occasione furono organizzati a Trieste dagli slavi grandi cortei inneggianti all’Unione Sovietica e a Tito. Come temuto e pronosticato dal Governo di Roma ripresero gli infoibamenti, le deportazioni non soltanto di fascisti e collaborazionisti ma anche di comuni cittadini Italiani.
Alexander non mancò di meravigliarsi per il comportamento delle truppe di Tito e ricevette una egualmente meravigliata risposta nella quale quest’ultimo chiarì la dimensione politica del caso: “la Jugoslavia è molto interessata a questo territorio non solo in quanto vincitrice dalla parte degli Alleati, ma anche perché questi territori furono ingiustamente annessi all’Italia quale risultato di un ingiusto precedente trattato di pace”.
Di fronte all’azione di Tito, la posizione angloamericana si ricompattò e si riaffermo il concetto che il destino di questa parte del mondo sarebbe stato deciso al tavolo della pace.
Dall’altro lato, Truman stabilì come minima richiesta accettabile il controllo completo ed esclusivo di Trieste e Pola, delle linee di comunicazione per Gorizia e Monfalcone e di un’area sufficiente ad Oriente per permettere il controllo amministrativo della regione. Gli angloamericani inviarono quindi una nota congiunta a Tito invitandolo ad abbandonare Trieste e informarono Stalin del contenuto di quest’ultima.
Nel contempo, il comando militare jugoslavo della città pubblicò una serie di 8 ordinanze che rafforzavano il controllo sugli abitanti e su tutti gli aspetti economici ed industriali nell’area, tanto che il comandante britannico riferì di una “prevaricazione sistematica e non dissimulata delle autorità jugoslave sulla popolazione”. A questo punto, il 21 Maggio, il comitato alleato ordinò ad Alexander di procedere con una dimostrazione di forza e lo stesso giorno il presidente Truman inviò un telegramma a Stalin informandolo che gli Stati Uniti guardavano alla situazione della Venezia Giulia come ad una questione di principio sulla quale gli Stati Uniti non erano disposti al compromesso.
Stalin, contrariamente alle aspettative jugoslave, non era in grado in quel momento di affrontare uno scontro aperto con gli anglosassoni e non appoggiò pienamente le rivendicazioni titine, permettendo la firma il 9 giugno a Belgrado dell’accordo Tito-Alexander, poi perfezionato a Duino, che stabiliva la ripartizione della Venezia Giulia in due zone, una occidentale con Pola con amministrazione alleata, ed una orientale molto più vasta con amministrazione jugoslava. La linea di demarcazione chiamata poi linea Morgan, dal nome del generale che aveva fissato i punti dell’accordo, rappresentava una divisione dell’unità geografica, etnica ed economica della Venezia Giulia. La reazione italiana alla notizia dell’accordo fu di grande stupore e rammarico e gli ambasciatori italiani a Londra e Washington, non mancarono di protestare. Le reazioni alleate all’opposizione italiana furono contrastanti gli americani, pur difendendo l’accordo, riconobbero che questo non poteva soddisfare l’Italia, i britannici mostrarono invece un vivo disappunto. L’ambasciatore a Mosca evidenziava come fosse impossibile per l’Italia mantenere tutta l’Istria e che quindi la linea Morgan aveva molte possibilità di divenire la base di discussione per la frontiera definitiva e invitava le autorità italiane di assicurarsi che non venisse ulteriormente peggiorata, ipotesi questa tutt’altro che remota.
Inoltre Quaroni suggeriva che l’Italia insistesse nel richiedere un plebiscito.
Per tutta l’estate del 1945 i contatti tra le autorità italiane ed alleate si limitarono alle denunce italiane di maltrattamenti e di abusi perpetrati nella zona occupata dagli jugoslavi a danno degli Italiani e dai tentativi, peraltro assai blandi, di interessamento da parte degli angloamericani. A queste difficoltà si deve aggiungere il fatto che all’Italia non fu permesso di riallacciare dirette relazioni diplomatiche con la Jugoslavia, costringendo la diplomazia romana a passare costantemente tramite gli angloamericani. In Italia i lavori preparatori della Conferenza di pace iniziarono il 16 settembre 1944 con la prima riunione della Commissione confini tenutasi presso il Ministero degli Affari Esteri, il cui scopo era l’adozione di una linea di condotta comune tra i vari Ministeri competenti per la difesa dell’italianità della regione giuliana.
Il problema principale era l’individuazione della linea di confine da proporre in sede di conferenza. In proposito, il Ministero della Marina e l’Esercito erano propensi a sostenere il confine italiano stabilito a Rapallo, mentre il Ministro degli Esteri, considerava la linea Wilson la soluzione più favorevole dato che vi erano pochissime probabilità che all’Italia fosse concesso di mantenere la linea di confine di prima della guerra.
Comunque le decisioni che riguardavano il confine orientale furono prese dai 4 grandi, senza che le richieste dell’Italia e della Jugoslavia fossero prese seriamente in considerazione, relegando le dirette interessate al ruolo di comparse.
Per i sovietici l’assegnazione di Trieste e del Litorale alla Jugoslavia rappresentava il coronamento della secolare aspirazione russa: di affacciarsi finalmente ai mari caldi. Per raggiungere questo obiettivo i sovietici non mancarono di ribadire in ogni momento il concetto della pace punitiva per l’Italia che aveva attaccato l’URSS e smembrato la Jugoslavia. Per gli anglosassoni invece si trattava non soltanto di contenere le ambizioni russe ma anche di portare l’Italia, la cui posizione veniva ad assumere una notevole importanza strategica, nella propria zona d’influenza. I diplomatici sovietici, però, forti anche della mancata smobilitazione dell’esercito russo dall’Europa furono assai più abili dei loro colleghi anglosassoni che si trovarono, almeno all’inizio, in una posizione di debolezza tanto che gli americani furono definiti: “leoni a Washington e pecore alla Conferenza”.
Alla Lancaster House a Londra l’11 settembre si aprì la riunione del Consiglio dei Ministri cui parteciparono De Gasperi e Kardelj, vice presidente della Jugoslavia. Il primo a prendere la parola il 17 Settembre fu Kardelj che sostenne come possibile frontiera il confine italo-austriaco anteriore alla prima guerra mondiale, modificato ulteriormente a nord in favore della Jugoslavia.
Kardelj sostenne che le città ed i grossi comuni erano isole straniere nel mare croato e sloveno, mentre dimostrava come la Venezia Giulia facesse parte della penisola balcanica e adduceva motivi di carattere economico per cui Trieste e Fiume sarebbero stati lo sbocco economico dei Balcani.
Il discorso infine terminava con considerazioni di carattere politico per cui l’Italia avrebbe sempre dimostrato, nei confronti della Jugoslavia, un’aperta ostilità poi culminata con l’invasione fascista.
Lo stesso giorno parlò anche De Gasperi che, da bravo democristiano evitando forzature, espresse il desiderio che fossero ristabilite le relazioni con la Jugoslavia e mostrò la propria comprensione nei confronti degli slavi che avevano subito l’attacco del 1941.
Tuttavia, De Gasperi non mancò di rilevare che l’Italia aveva partecipato con gli alletia, alla guerra contro la Germania e che nei Balcani i soldati italiani si erano uniti nella lotta insieme ai partigiani titini lavando, “con questo pegno di sangue le antiche offese”.
Fece notare che i soldati italiani deportati in Jugoslavia si trovavano ancora internati, nonostante l’accordo Tito-Alexander ne prevedesse il rimpatrio. Circa il problema della linea di confine, il Ministro italiano assumeva, come base per ulteriori trattative, la linea Wilson.
Le discussioni ripresero a Parigi dove però si arenarono. Per uscire da questa impasse, fu deciso nell’ottobre 1945 l’invio di una Commissione di esperti nella Venezia Giulia, il cui compito era individuare la frontiera secondo la divisione etnica.
La Commissione d’esperti visitò la Venezia Giulia nel marzo-aprile 1946 presentando un rapporto finale il 29 aprile al Consiglio dei Ministri riunitosi nuovamente a Parigi.
Vi si proponevano 4 diversi tracciati della linea di frontiera, quante erano le singole delegazioni, poiché queste non avevano raggiunto un accordo unanime.
Quindi, l’analisi delle posizioni delle diverse delegazioni rifletteva, senza nulla aggiungere, le convinzioni dei rispettivi governi e non apportò alcuna nuova informazione alla seconda riunione del Consiglio dei Ministri che si riunì a Parigi dal 25 aprile al 16 maggio 1946.
Ancora una volta, furono sentite le posizioni di Kardelj, che protestò per l’invio di una Commissione d’esperti nella Venezia Giulia “parte integrante del territorio nazionale della Jugoslavia senza che fosse stato chiesto il permesso a Belgrado” e contestò le linee occidentali definendole inaccettabili mentre la linea sovietica pur essendo la più equa (sic!) andava corretta perché lasciava Tarcento e Grado all’Italia.
Molto più moderate furono le argomentazioni usate dal nostro Ministro degli Esteri che, sottolineando di non voler entrare in polemica col delegato jugoslavo, dimostrò che l’Italia aveva dato prova di buona volontà rinunciando alla frontiera delle Alpi, proponendo la smilitarizzazione dell’Adriatico e condannando più volte l’aggressione fascista.
De Gasperi criticò anche il rapporto della Commissione d’esperti poiché i suoi componenti non avevano visitato Fiume, Zara, Cherso e Lussino e, non avevano trovato un accordo per una logica applicazione dei dati rilevati. Egli rilevò che la linea sovietica, se da un lato, non lasciava alcuno slavo in Italia, consegnava invece ben 600.000 italiani alla Jugoslavia, mentre la linea francese toglieva all’Italia l’Istria sud-occidentale, attribuendo le italianissime città di Pola, Rovigno e Parenzo alla Jugoslavia. Diplomaticamente, De Gasperi rilevò l’assurdità della frontiera francese che non si rifaceva ad alcun preciso criterio etnico o economico affermando che “non mi è chiaro in base a quale concetto” fosse stata tracciata la linea. Riconobbe infine che la frontiera più equa era quella americana poiché quella inglese privava l’Italia delle miniere di carbone dell’Arsa.
Mentre i ministri degli esteri dei paesi vincitori esaminavano le proposte jugoslave e italiane, il Segretario di Stato Byrnes propose, con l’appoggio sovietico l’ipotesi di indire un plebiscito.
Quest’idea a suo tempo già ventilata da Quaroni trovava però fermamente contrario De Gasperi per due fondamentali motivi. Prima di tutto, l’accettazione di un plebiscito nella Venezia Giulia ne implicava un altro in Alto Adige che, molto probabilmente, non sarebbe stato favorevole all’Italia.
Inoltre, era prevedibile che il momento psicologico particolarmente contrario all’Italia, potesse influire negativamente sui risultati, considerando le fortissime pressioni che sarebbero state esercitate sulla popolazione. Queste motivazioni, più la prima che la seconda, convinsero il Governo italiano ad archiviare l’ipotesi.
I lavori della Conferenza proseguirono fino al 16 maggio e furono caratterizzati dal progressivo arretramento delle posizioni britanniche ed americane a favore della linea francese, e dal concretizzarsi della possibilità d’una internazionalizzazione non soltanto del porto di Trieste ma anche della zona intorno alla città.
Il 16 Maggio la conferenza si aggiornò al 15 giugno e il giorno dopo la stampa italiana annunciava che gli anglosassoni avevano deciso di accordarsi con i sovietici, accettando la frontiera proposta dalla Francia con limitate modifiche attorno a Trieste e a Gorizia.
Molotov il 17 Giugno propose di adottare la linea sovietica e che la regione intorno a Trieste fosse dichiarata “Territorio autonomo” sotto sovranità jugoslava, con uno statuto formulato dai quattro grandi.
De Gasperi, seriamente preoccupato che una simile proposta potesse venir accettata inviò un telegramma alle ambasciate di Londra, Washington, Parigi e Mosca nel quale avvertiva che le proposte di Molotov erano contrarie all’accordo Alexander-Tito.
Dava inoltre istruzioni agli ambasciatori di chiedere un prolungamento dell’occupazione militare, di gran lunga preferibile fino a quando non fossero stati “escogitati sistemi e metodi affinché la Jugoslavia non consideri acquisita sin da ora la sua sovranità sulla Zona B, e per impedire che la tragedia a danno degli italiani della stessa zona, diventasse un vasto campo di concentramento alla Buchenwald”.
Il 23 Maggio inviò direttamente un messaggio a Truman col quale deplorava i continui arretramenti statunitensi dalla linea Wilson alla linea Morgan ammonendo che “nessun Governo italiano, neppure eletto a suffragio universale, avrebbe potuto firmare nel futuro un trattato di pace che desse Trieste e una parte prevalentemente italiana della Venezia Giulia alla Jugoslavia”.
Tuttavia, i tentativi del Governo italiano ebbero scarso successo perché il Territorio Libero di Trieste nacque ufficialmente il 3 luglio 1946, quando i sovietici accettarono una soluzione proposta dal Ministro Bidault che poi venne inviata ai supplenti dei Ministri degli Esteri per la stesura definitiva.
Alla luce dei documenti diplomatici americani, l’idea di internazionalizzare Trieste con una amministrazione fiduciaria ONU temporanea, fu dell’ambasciatore Quaroni, che per uscire dall’impasse creatosi dalla passività anglosassone e dalla rinata combattività sovietica, suggerì all’ambasciatore americano a Mosca, Smith, di internazionalizzare il capoluogo giuliano sul modello di Danzica.
Quaroni intanto, telegrafava a De Gasperi, contrarissimo all’ipotesi su Trieste, per evidenziare che nelle attuali circostanze questa era l’unica soluzione che allontanava l’eterna possibilità di un colpo di mano.
Comunque, e nonostante tutto, il Consiglio dei Ministri degli Esteri stabilì non soltanto che tutto il territorio situato ad est della linea francese sarebbe stato ceduto alla Jugoslavia, ma anche la costituzione del TLT. L’integrità e l’indipendenza del TLT sarebbero state assicurate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU che avrebbe nominato il governatore in seguito a consultazioni con l’Italia e la Jugoslavia. Come previsto tale accordo scontentava sia Roma, sia Belgrado che si dichiarò indignata per la mancata considerazione delle aspirazioni storiche jugoslave. Il Governo italiano fu anch’esso molto deluso dal mancato appoggio angloamericano.
L’atteggiamento di questi ultimi è magistralmente esposta in una lettera inviata dal Ministro Casardi, della commissione confini a Prunas, Segretario generale del MAE il quale, dopo aver enunciato tutti gli errori commessi dalla diplomazia italiana sottolineava: “(…) se tutta la questione non fosse stata condotta così male da coloro i quali avevano il proposito di difenderci il risultato avrebbe potuto essere estremamente più favorevole. Ma dati gli errori che sono stati commessi il risultato attuale è tutto sommato meglio di quanto si poteva temere”.
L’azione diplomatica non sortì alcun effetto ed è sintomatico che il 10 agosto quando De Gasperi finì di pronunciare il proprio discorso nessuno, eccetto l’americano Brnes, si alzò per salutarlo.
Il 1° Agosto, nella seduta plenaria di Parigi venne ascoltato Kardelj che ripeté le critiche già mosse nei confronti del trattato che tagliava fuori dalla loro patria numerosi croati e sloveni, che separava Trieste dal proprio retroterra consegnando un territorio abitato prevalentemente da slavi.
Insomma, per Kardelj veniva favorito l’imperialismo italiano mentre, la Jugoslavia che aveva sconfitto il fascismo veniva penalizzata. Il 10 agosto, dunque, prese la parola De Gasperi che venne trattato chiaramente come il rappresentante di un paese sconfitto e che evidenziò il suo disappunto per il trattamento ricevuto iniziando il discorso dicendo: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto tranne la vostra personale cortesia è contro di me: è soprattutto la qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione”. Sostanzialmente il Ministro italiano riaffermò le posizioni italiane sottolineando che il TLT non poteva rimanere in alcun modo indipendente, poiché tributario in tutto e per tutto, anche per l’energia e le ferrovie dell’Italia e della Jugoslavia.
Al termine del discorso De Gasperi propose che la discussione sulla Venezia Giulia venisse rinviata di un anno e lanciò un appello alla Jugoslavia per la ripresa delle relazioni dirette tra i due paesi. Con l’inizio di settembre la situazione a Parigi era giunta ad un punto morto poiché le grandi potenze rimanevano ancorate alle loro posizioni. Parallelamente ai discorsi ufficiali si svilupparono nell’ambito della Conferenza conversazioni che tuttavia non portarono ad alcun risultato.
Il testo del trattato venne quindi affidato ad una nuova conferenza dei ministri che si riunì nel novembre a New York ed alla quale parteciparono anche alcuni membri del Comitato giuliano che era stato costituito a Roma.
Tuttavia, nonostante ogni buona volontà dei membri del Comitato, la loro presenza fu del tutto ininfluente: la conferenza stabilì il confine dell’Italia e quello del TLT secondo l’enunciato francese e chiuse i lavori il 20 gennaio dopo aver notificato ufficialmente il testo del trattato all’Italia. Il trattato stabiliva che al momento della sua entrata in vigore le truppe angloamericane avrebbero abbandonato la regione giuliana, ad eccezione del TLT mentre truppe italiane sarebbero entrate a Gorizia e a Monfalcone.
Si giunse così al fatidico 10 febbraio 1947. Dopo un anno e mezzo di infruttuose trattative il Governo italiano era costretto a firmare nel Salone dell’Orologio del Quai d’Orsay una pace punitiva che privava l’Italia dell’Istria, di Zara e di tutta la Dalmazia. Sebbene il Governo Italiano avesse tentato di camuffare la propria impotenza dichiarando che la firma del trattato “veniva posta con riserva”, ma nella sofferta consapevolezza di doverla apporre, «nell’interesse del Paese, della pace e della collaborazione internazionale» come ebbe a dire lo stesso De Gasperi.
L’Italia, insomma, “firmò protestando” tanto che il giorno stesso il conte Sforza inviò una nota alle potenze alleate dichiarando che il popolo italiano si aspettava una revisione Prossima del trattato. Il parlamento italiano ratificò il trattato il 31 Luglio, dopo che anche il presidente provvisorio della Repubblica De Nicola si rifiutò di ratificarlo, e questo entro in vigore il 15 Settembre 1947.E’ bene ricordare le parole pronunciate a Montecitorio prima della votazione finale da Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente della Vittoria della grande guerra. Disse Orlando, «si risponderà nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità». Affermazione di portata storica, che diede luogo alla vivace protesta del Governo, sintetizzata nell’intervento finale di Alcide De Gasperi.
Oggi si deve riconoscere, nel quadro di una valutazione storica finalmente oggettiva, che Orlando, assieme a tutti i Costituenti che si riconobbero nelle medesime posizioni, come Benedetto Croce, aveva visto giusto, parlando con l’anima e con la ragione. Del resto, non è forse vero che altri Stati, in condizioni peggiori dell’Italia, si sottrassero all’umiliazione di una ratifica per molti aspetti senza valore, a tutto vantaggio della loro dignità?
Se il Trattato di pace venne definito l’“epilogo di una tragedia” in realtà per la popolazione giuliana fu l’inizio della tragedia. Il Trattato di Parigi conteneva normative che riguardavano specificamente la popolazione di nazionalità italiana residente nei territori ceduti alla Jugoslavia. La Jugoslavia, era tenuta entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato, a disporre una legislazione che consentisse ai cittadini la “cui lingua usuale è l’italiano” di optare per la conservazione della cittadinanza italiana entro un anno.
Occorre tuttavia ricordare che l’esodo dall’Istria era iniziato prima dell’entrata in vigore del Trattato di pace.
Inoltre, è necessario anche tenere presente che, in seguito all’accordo Tito- Alexander del 9 giugno 1945, vi fu un’ondata di profughi che dalla Zona B, occupata dagli Slavi, si riversò nella Zona A. L’esodo della popolazione italiana dalla Zona B non venne, infatti, agevolata dal Governo italiano che temeva che il cambiamento della composizione etnica della regione potesse nuocere gravemente alle rivendicazioni sulla Venezia Giulia al momento della Conferenza della pace. In Carinzia nel 1920 questo non si verificò. In un appunto riservato della Direzione Generale degli Affari Politici si affermava che “Questo Ministero ritiene in linea di massima preferibile che gli Italiani di cui oggetto (i Giuliani, n.d.r.) non abbandonino nel momento attuale le loro posizioni e riconosce che, se pur per ragioni contingenti, non appare conveniente incoraggiare l’esodo”.
Addirittura De Gasperi pensò di agevolare il ritorno in Istria di 120.000 uomini fra deportati politici, soldati originari della Venezia Giulia detenuti nei campi di concentramento in Germania e i profughi fuggiti dai titini.
Anche la Jugoslavia d’altro canto era contraria all’esodo poiché si sarebbe appalesato il rapporto conflittuale tra la popolazione e le autorità di amministrative contraddicendo in tal modo l’immagine positiva fornita dagli Jugoslavi della situazione esistente in Istria. Tra l’altro sotto il profilo socio-economico l’esodo di massa degli Italiani implicava un grave problema di ripopolamento dei centri urbani, soprattutto quelli della costa. A nulla però valsero questi espedienti dal momento che la popolazione italiana non intendeva rimanere sotto l’occupazione slava.
CONCLUSIONI
Con la fine della guerra, tra occidentali e sovietici era iniziata quella che la storiografia definisce guerra fredda e la questione giuliana divenne una sorta di merce di scambio nel braccio di ferro tra i due blocchi. Non si possono infine tacere le responsabilità del PCI che, sin dall’inizio della guerra civile in quella regione, uscendo dal CLN per costituire insieme agli Slavi il “Fronte di Liberazione italo-sloveno” indebolì le posizioni degli altri partiti membri delle coalizioni antifasciste della Venezia Giulia. Durante le conferenze che portarono alla pace, la presenza in seno al Governo del PCI, che praticava una politica remissiva nei confronti del partito comunista dell’Unione Sovietica e di quello croato non rese possibile l’adozione di una posizione più ferma nei confronti delle pretese jugoslave e di quelle sovietiche. In queste condizioni, diveniva anche difficile per il Governo italiano assumere una posizione ferma in sede internazionale soprattutto quando, al suo interno, Togliatti definiva menzogne le accuse di pulizia etnica mosse nei confronti dei titini. Viva preoccupazione suscitò tra la popolazione istriana il fatto che a condurre le trattative a Parigi vi fosse anche l’on. Reale membro del PCI e stretto collaboratore di Togliatti, che nel 1945 aveva esortato la popolazione triestina ad accogliere i partigiani slavi come liberatori.Un’altra questione di grande valore morale, fu forse quella riguardante la possibilità o meno di firmare il trattato o di ratificarlo. Eminenti personalità come abbiamo visto, erano contrari alla firma. Non firmare però avrebbe implicato tali e tanti ulteriori sacrifici, in particolare economici, che l’Italia del dopoguerra non era in grado di sopportare. Gli alleati erano per di più convinti di aver fatto tutto quello che era in loro potere per alleviare la pace punitiva voluta da Molotov. L’Italia d’altronde, durante le trattative, cerò di mitigare il proprio atteggiamento politico, per evitare così di essere giudicata all’interno, come all’estero, “nazionalista” sperando in questo modo di attirare l’attenzione e simpatia degli Alleati e, nel contempo cercare di evitare il consolidarsi di un clima patriottico che avrebbe, probabilmente, potuto favorire la vittoria della monarchia il 2 Giugno. L’Italia si presentò, alla Conferenza della pace, sconfitta prima ancora psicologicamente che politicamente. Non si sfruttò appieno la carta del plebiscito e l’esodo degli Istriani, Giuliani e Dalmati rappresenta nei fatti, in un certo qual senso, proprio questo plebiscito mancato».